Zante, tra le contraddizioni di un puzzle senza soluzione
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Dall’alto
Dall’alto Zante è un pugno di bosco piantato nello Ionio, solcato ad occidente da bianche ferite minerarie. Un unico agglomerato circondato dal blu, di cui colpisce, in primo luogo, la frammentarietà. Una volta a terra, strade, abitazioni e attività commerciali, raccontano di un recente patto a cui nessuno dei due contraenti ha dato il giusto peso. A tradire, immediatamente, il paradigma di una Grecia solare ed esotica ci pensa il profilo sbiadito dell’aeroporto, una sorta di casa circondariale anomala, pensata per essere attraversata e subito abbandonata; un non luogo proiettato all’immediato altrove.
Laganas
É viaggiando verso est, ad appena sette minuti da esso, che si viene inghiottiti dal caos colorato e rumoroso di Laganas. Nelle vie larghe, eppure intasate, macchine, motorini e quad, riempiono l’aria di rosso con la luce dei propri stop, lanciandosi in sorpassi spericolati. Attorno è tutto un incessante brulicare. Da ambo i lati della strada, un’accozzaglia indefinita di negozi di souvenir, pub dalle basse pretese e piccoli super market illuminati dal bianco delle luci al neon, reso a tratti opaco dalla poltiglia di insetti morti stratificatasi nel tempo, satura l’ampio spazio per farti sentire, incomprensibilmente, stretto.
Ed è in questa, non si sa quanto, volutamente mancata regolamentazione, che l’alto edificio dall’insegna fucsia, che recita allucinato “strip tease”, faccia da ombra al comunque ben frequentato centro benessere, se così lo vogliamo chiamare; un vano di trenta metri quadri, una specie di asettico garage, in cui alcune vecchie signore americane stanno lasciandosi rosicchiare i calli dei piedi in ampie vasche assediate da pescetti piccoli e grigi, ed evidentemente, affamati.
Sullo sfondo
Sembra ripercorrere lo stereotipo di una Napoli più bislacca e rude, Laganas, privata della poesia dei Quartieri Spagnoli, a cui resta, soltanto, l’arte dello stratagemma. Arte che ha saputo benissimo importare senza che si snaturasse nel viaggio da una costa all’altra del Mediterraneo. In mezzo c’è quell’umanità transnazionale a noi tutti familiare, che emerge per scroccarti una moneta per tornare, subito dopo, a mescolarsi di nuovo nel mondo, e scomparire per sempre. Il pachistano dalla lunga camicia color canapa e le sue rose; il giovane fuori dal pub che parla proprio la tua lingua e in qualche modo ti convincerà ad entrare.
Sullo sfondo c’è un pezzo di città che mastica vite e fa tanto, ma tanto, rumore: un motociclista senza casco, uno dei tanti, sorpassa da destra una carrozza trainata da una povera bestia che non assomiglia più a un cavallo. Le costole sporgenti sembrano bucarne il torace di cartapesta, mentre i turisti fotografano attorno le luci di una piccola Las Vegas senza casseforti; il mare è infondo, è lì che dovrà arrivare.
Una striscia di spiaggia stretta. Un filo di terra appena, schiacciata tra l’asfalto e l’acqua. Il substrato è quello di centinaia di cicche di sigarette, involucri di merendine. L’impronta dell’uomo dopo una giornata fuori dalle mura di “casa”. Alle spalle i lidi con gli ombrelloni in paglia e il ristorante dall’arredo bianco e le ampie vetrate. È la carcassa di una Rimini afflitta dall’incuria, seppur graziata dall’acqua limpida come quella di una piscina.
Dietro l’angolo
Ma dall’altra parte del patto, dicevamo, c’è una terra diversa, che torna a riprendersi tutto, centimetro dopo centimetro, lì, dietro l’angolo. La fotografia di un equilibrio fragile e precario, ma su cui, nel frattempo, si è deciso di stare a galla. È figlia di questa logica l’orografia dei luoghi, che vira e si trasforma, tornando ad essere selvatica. Le strade, da larghe e affollate, si fanno strette e dissestate, ad un unico senso di marcia, con buona pace degli automobilisti e dei pullman turistici.
La polvere bianca entra dai finestrini, l’aria condizionata è un lusso che non ci si può permettere con una pendenza minima del 10%. Si sale, tornante dopo tornante. Da un lato e dall’altro, l’occhio si perde. Fusti di ulivi centenari e macchia mediterranea, verde, verdissima, in uno scorrimento sequenziale senza soluzione. Un flip book infinito, intrappolati nell’impressione del movimento. Impressione che torna ad essere “reale” quando, dopo numerose salite, l’immagine del mare ritorna a ricordarti di essere su un’isola, come in un sorprendete e inaspettato miracolo.
Mare e cemento
Sì, perché per arrivarci, al mare, bisogna prima attraversare la montagna. L’acqua è una grazia che si apre quasi sempre e solo dopo una roccia che, tagliata a metà, lascia spazio al baratro. Il segnale del pericolo crollo è lì, piazzato quasi ovunque, ma sembra essere un’avvisaglia contro cui non si sono prese precauzioni. Non una rete di contenimento lungo le strade strette e pietrose. Il suono del clacson è l’unico alleato prima di affrontare ogni curva. Un’irresponsabile mancanza travestita da temerarietà. Dove tutto sembra essere lasciato al caso, al destino disegnato da qualche dio, contro cui ogni altro intervento non è mai apparso come possibile soluzione.
Eppure è proprio lungo la costa occidentale, quella più difficilmente raggiungibile via terra, dove il mare si fa puro e cristallino, che la mano dell’uomo è arrivata a costruire vere e proprie ville. Enormi blocchi di cemento bianco costeggiati da vetri, vetri e ancora vetri. Mostri arroccati sulla roccia, tagliata ad arte a costruire una piazzola di sosta per ricchi avventori. Da lì piccole strade private scendono ad un minuscolo spicchio di spiaggia. Reati contro natura visibili solo dal mare, a ricordarti che ad ogni patto c’è una fine, perché tutto, proprio tutto, si può comprare.
Porto Limnionas
Esattamente a metà della costa occidentale, Porto Limnionas. Ci si arriva dopo aver attraversato un piccolo paesino di montagna, Agios Leon, e in un attimo, nelle rughe dei vecchi, ti sembra di rivedere l’entroterra lucano. Quello che sarebbe stato una Calvello con il mare sotto, una Basilicata rurale spostata qualche chilometro più a est. Dove i muri delle case sono fatte di pietre e ad ogni incrocio di strada passa e si consuma l’eternità dell’esistenza umana. Il mare è una lingua di terra contorta, che man mano spezza la propria rabbia sulle prime rocce, giungendo, ormai sfogatosi, placido e calmo, su una riva di pochi metri.
Makris Gialos
Dalla parte opposta, più a nord, sul versante orientale, Makris Gialos. Sabbia e ciottoli, e un fondale caraibico che sembra essere rubato ai sogni. Prima, venendo da sud, si attraversano campagne di ulivi e terreni abbandonati, dove le galline hanno fatto la casa in vecchi rottami di auto, e le capre, legate a un cippo, brucano nelle cunette stradali liberandole dalle infestanti.
È la soglia di un mondo contadino che pure si è nascosto da qualche parte, a ricordarti quanto l’uomo, infondo, possa agire, seppur gravemente, sulla sola superficie delle cose, conservandone intatto il resto. La profondità immutabile a cui non si può giungere se non con un ricordo prenatale. Una fantastica e sensibile leggerezza che forse ci è concessa fino a poco prima di venire al mondo, spezzandola, subito dopo, irrimediabilmente, con il pianto.
Il silenzio sacro a cui, per natura, non possiamo aspirare. Quel silenzio che per tutta la vita, maldestramente, rincorriamo nella macchiettistica messa in scena di un equilibrio che non c’appartiene. Fino a quando, tutto questo “resto” ci supera e ci sorpassa, senza neanche farci caso, continuando, nostro malgrado e con grande stupore, a rimanere “intero”, nonostante la sottrazione di noi stessi.
Grembo materno, paradiso e inferno
Sembra il grembo materno di un altro mondo questo pezzo di terra, da cui tutti corrono da un posto all’altro. Turisti e viaggiatori, mentre si prova, ognuno a proprio modo, a raccontarlo. Un racconto, questo, che non si lascia snocciolare per immagini, regalando l’infantile illusione di poterlo capire e amare. Una febbre forte ma passeggera, che pure, come si dice dalle nostre parti, ti aiuta a crescere, o a credere di averlo fatto.
Il mare arriva come uno schiaffo, sempre e ancora inaspettato. Bellissimo. Il paradiso in terra con la minaccia diabolica delle grotte sulfuree, l’odore di marcio che ti sveglia dal miraggio di un eden blasfemo, di una bellezza eretica e allucinata. È allora che t’accarezza il dubbio che tutta quella meraviglia sia solo un espediente per viver tranquilli e ritirati, un piccolo monile a cui rinunciare per tenersi stretto il resto. Specchio per le allodole a protezione di un entroterra troppo esposto su un’isola di appena quattrocento chilometri quadrati. Il patto di cui prima. Un pari e dispari che fino ad adesso, nonostante tutto, ha portato i suoi frutti.
Contaminazioni
A confermarlo è la cucina, che appena fuori dal capoluogo, una piccola Taranto dall’influenza veneziana, si conserva tradizionale, cedendo solo, a mo’ di triste seppur, evidentemente, necessario compromesso, ad abbondanti contorni di patatine fritte. Il resto è ciò che non t’aspetti su un’isola: una vera e propria cultura della carne grigliata e dei formaggi, tanto freschi quanto stagionati, corredata da un’interessante produzione di miele, confermata dai piccoli apiari colorati sparsi qua e là nelle campagne.
In ultima sintesi tutto ci parla di un gioco alla fune continuo e inarrestabile. Di una contaminazione a cui si è dovuto cedere. Da una parte il rumore perforante delle discoteche, i lidi super lusso e gli esorcismi al neon; dall’altra il belare delle greggi, i muretti a secco e le luci calde delle vecchie lanterne cittadine. Il fish and chips contro la graviera. Un gioco in cui, di volta in volta, i due avversari cedono gradualmente e reciprocamente, a tempi alternati, l’uno il passo all’altro. Una verità che non si consegna mai ad un’unica e tranquillizzante lettura, ma si frammenta in un puzzle irrisolvibile.
Il resto
Il resto sembra essere abbandonato al tempo che sarà, ad una rasserenante e consolante rassegnazione collettiva. La rassegnazione di un’isola che non può e non sa risolversi diversamente, che porge il proprio fianco e le proprie coste agli attacchi di un’irriverente modernità che puzza di filigrana, promettendo un successo che non potrà non essere che di pochi.
Il resto, tutto il resto, si è cristallizzato a metà strada tra cielo e terra, incastrato, come passeri nelle reti da caccia, tra i polloni degli ulivi verdi, verdissimi, nella vegetazione che inghiotte il bitume nero dell’asfalto; negli incroci segnalati da uno stop qualche centinaio di metri prima; negli altarini per i morti delle strade, piccoli tempietti alla vita che non c’è più; nelle stazioni di benzina senza self-service, perché su un’isola, chi non ha uno stabilimento balneare o un ristorante, dovrà pur guadagnare qualcosa per poter mangiare.
In tutto quello che non si racconta, che non è necessariamente da capire, che esiste e continuerà a farlo. Nelle strade bianche e polverose, nel contrasto cromatico con la terra rossa e fertile. Nella scogliera che crolla per ricompattarsi altrove e farsi sabbia chiara. Lì, dall’alto, dove il mare è lontano, lontanissimo.