Mons Clarus, nel Pollino di Pasquale Caputo

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Un luogo, un sogno

Mons Clarus è il toponimo latino di Chiaromonte. Poco più di millecinquecento abitanti arroccati a 800 m s.l.m., su uno sperone roccioso che domina la valle sottostante. Più giù, il Sinni, da sud, e il Serrapotamo, suo affluente a nord, disegnano la geografia di un territorio di straordinaria, seppur aspra, bellezza. Siamo nella parte più meridionale della provincia di Potenza, dove la Basilicata bacia i boschi e i monti calabri. In mezzo, il Parco Nazionale del Pollino. Oltre 190 mila ettari, che ne fanno la più grande area protetta d’Italia.

Mons Clarus è anche il nome con il quale, un giovane ventisettenne, nel 2005, dà avvio al proprio sogno. Un progetto di rivendicazione e riscatto portato avanti lì dove è nato e cresciuto. Un percorso intrapreso nella salvaguardia del territorio e delle tradizioni. Un percorso che trova maggiore forza e carattere nella promessa di una genuinità recuperabile. Come? «Sole ed acqua di sorgente». A ripeterlo come un mantra è Pasquale Caputo. Classe ’78 e la consapevolezza di come qualità, oggi più che mai, sia sinonimo di benessere della terra che si lavora, prima di qualsiasi altra cosa.

«Ho dato avvio alla mia azienda agricola con l’idea di non forzare la mano della natura. Di rispettare le attese dettate da essa. Rinunciando, sin dal principio, all’utilizzo della chimica di sintesi. Penso che il termine “rispetto” spieghi bene quello che intendo dire. Per ciò che ne segue, fuori dal campo, ricorro alla trasformazione artigianale».

Dentro e fuori dal campo

Dentro e fuori dal campo, a farla da padroni, sono i peperoni di Senise. «Si tratta sicuramente del nostro prodotto di punta – spiega Caputo – la cui produzione occupa gran parte dell’anno e richiede grande impegno ed attenzione».

La semina avviene tra febbraio e marzo, mentre per la raccolta, realizzata manualmente, bisogna attendere  la prima decade di agosto, quando le bacche raggiungono la colorazione rosso porpora. Queste sono quindi disposte su teli di stoffa in locali ben areati, per almeno due o tre giorni, lontano dalla luce solare. I peduncoli vengono poi infilati in serie con spago fine facendo in modo che le bacche si dispongano a spirale angolata, l’una rispetto alla successiva. Il risultato sono le collane o serte, poi esposte al sole per l’essiccatura.

Il prodotto secco si può anche presentare in polvere a grana finissima, ottenuta mediante la molitura, che ricorda, per il colore intenso, lo zafferano. Motivo per cui il peperone viene anche chiamato, nel dialetto lucano, zafaran. Ma la versione più richiesta resta senz’altro il peperone crusco. Il peperone essiccato e fritto per pochi secondi nell’olio bollente.

“Radici che camminano” e la collaborazione con Lucanapa

Le altre coltivazioni? «Dai datterini, prodotti senza l’utilizzo di diserbanti e pesticidi, che commercializziamo freschi o confezionati al naturale in barattoli di acqua e sale, ai peperoncini; fino ai cereali, segale e farro, destinati ai forni e alle pasticcerie, o trasformati in farina per la produzione di pasta».

Produzioni legate al territorio. «Radici che camminano». Così, a Pasquale, piace definirle. A ciò si aggiunge, però, anche la voglia di osare e sperimentare. «Le idee che non si stancano di nascere» commenta Caputo.  Iscrivibili tra queste, sicuramente, la birra artigianale Monstrum. Una Italian Grape Ale da 9°, generata dall’unione del mosto di Aglianico e orzo dorato. Ambrata, con schiuma bianca e compatta, al naso ha sentori vinosi che si mescolano bene ad aromi fruttati. Decisa e molto minerale al palato.

E ancora l’avventura con la Società Cooperativa Lucanapa. «Fummo i primi ad aprire in Basilicata una cooperativa che trattasse la cannabis sativa. Un progetto dall’approccio ambientalista, al fine di incentivare non solo processi produttivi sostenibili, e intanto generare ricchezza, ma dare il via a un processo di risanamento dei suoli inquinati. Oggi, dalla cannabis industriale, produciamo diversi sottoprodotti. Dalle tisane all’olio di canapa, fino a farine utilizzate per confezionare pasta e biscotti».

Il domani

I progetti futuri? «Sono tanti, forse troppi – commenta Caputo – anche se a volte verrebbe voglia di abbandonare tutto. Non di certo per la fatica. Penso che questo sia il lavoro più bello del mondo. Avere la possibilità, ogni giorno, di assistere al ciclico rinnovamento vitale. L’infinito in un seme. Sentirsi appieno figlio della terra, qui nel mio Pollino. Ma al tempo stesso la poca considerazione nei confronti dell’agricoltura così condotta, e il mancato riconoscimento della dignità di questo lavoro, sfiducia e fa sentire soli».

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