Senza collocazione, storie di choosy e sfaticati
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Ciò che segue non vuole porsi né come indagine statistica, ché dell’indagine statistica manca d’autorevolezza, né come saggio critico di alcun genere, per semplice limitazione personale della scrivente. Ciò che segue, invece, fa fermamente sua la tanto sincera quanto sconsiderata intenzione, priva tuttavia di pretesa alcuna, di farsi fotografia.
Una fotografia scattata d’impeto e forse proprio per questo, senza messa a fuoco, di quello che sono oggi i vostri figli. Di quello che siamo noi e quello che ci è rimasto: venti, trenta, quarant’anni ciascuno, della pretesa di un’individualità che ci ha fottuti, di una comunità che ci ha relegati tra le pagine di un teorema senza soluzione, e del coro di stronzi che continua a definirci sfaticati; o choosy, se anche voi, tra gli altri, nutrite un certo fascino per gli inglesismi.
Elisa
Elisa ha ventisette anni, i capelli lunghi e neri e gli occhi da bambina, ma Elisa non è il suo vero nome, perché a ventisette anni è senza collocazione e dirsi «poco disposta a cedere a qualsiasi proposta», oggi, no, non va di moda, neanche in questo sputo di paesello lucano dimenticato da Dio e dagli uomini. Nel cassetto c’è una laurea in belle arti, di cui ancora non si è pentita e una «fame insoddisfatta – mi dice – nei confronti della vita e del mondo». Una fame, però, che è costretta a tenere a freno. È stata più volte cameriera e «jolly» per la paga massima di 30 euro al giorno, e per giorno, si intende giorno intero.
«Vieni, provi e vediamo, mi hanno detto, e ho lavorato per mesi senza riposo con un contratto che mi ha coperto neanche per la metà del tempo». Perché lo ha fatto? «Per un’indipendenza economica che comunque non riesci a raggiungere, per campare senza la possibilità di campare», mi spiega. Dietro a quello che si fa fatica a chiamare con il proprio nome, sfruttamento, immersi fino all’ultimo capello nell’attuale e imperante morale lavorista, ci sono le umiliazioni e «la mancanza di rispetto per la persona, prima che per il lavoratore».
C’è un sistema malato e perverso che porta alti, nella lunga sfilata verso l’altare della patria e della santificazione, “gli imprenditori brava gente”, quelli che conosci, e per cui lavori proprio perché li conosci. Dal figlio del vicino che ha preso in gestione un lido al cugino di tua madre che si è aperto il supermercato, fino all’ex compagno di classe mai diplomatosi e che adesso ha un localino infondo alla via. Tutti coloro, insomma, che secondo l’incalzante retorica dei più, hanno “buttato il sangue”, “si sono fatti da soli” e che da soli non riescono a mandare avanti la baracca, perché gli altri, gli sfaticati, non vogliono lavorare.
Soffocato dalla retorica e da uno spirito critico andato a farsi fottere dopo il primo accredito bancario, c’é l’inefficienza del mercato del lavoro, di un sindacato che diventa politica da bar per guardare alle prossime elezioni, dei controlli che non ci sono, o che quando ci sono vengono ampiamente preannunciati. Il tutto, passato per il tritacarne del popolino che tiene stretto a sé la piccola proprietà, diventa, evidentemente, mancanza di volontà.
«Quello di cui ho paura oggi? – si domanda da sola Elisa – rimanere chiusa in una bolla che nessuno si preoccupa di rompere, appiattita nella continua ricerca di qualcosa di migliore, per poi rispondermi che le cose vanno bene così come sono».
Ma le cose, così come sono, non vanno proprio. A dircelo sono i numeri. Oggi in Italia si guadagna meno di trent’anni fa, a parità di professione, livello di istruzione e di carriera. Un primato che ci fa guadagnare gli ultimi posti nelle classifiche Ocse. A ciò si affianca l’istituzionalizzazione del lavoro gratuito, e per istituzionalizzazione, badate bene, non ci riferiamo alle ridicole dichiarazioni, sebbene riprese e urlate a gran voce da tutti i giornali, del Borghese o del Briatore di turno. Circa il 12% dei lavoratori italiani versa in condizioni di povertà, dati Eurostat, e il covid non c’entra visto che la rilevazione risale al 2019; mentre il 30% dei giovani occupati non guadagna più di 800 euro al mese. Ciò che non emerge è il nero, il lavoro stagionale è il suo sinonimo naturale.
Luca
Luca di anni ne ha trentacinque, e Luca, quello sì, è il suo vero nome, perché a trentacinque anni si dice stanco di doversi preoccupare di cose che non può controllare. «Ho iniziato a sedici anni in campagna – racconta, ricordandosi di un tempo in cui non aveva bollette o assicurazione auto da pagare – fragole, pesche, dalle sei del mattino fino alle 13, venticinque euro al giorno; poi i villaggi turistici come tutto fare e una paga più bassa degli altri perché non avevo famiglia, mi hanno detto, e poi – sorride – sono arrivati gli anni da promoter – e dà avvio a una lunga lista – dai concimi ai prodotti per l’infanzia, cioccolate e tablet, frutta secca e acquari, il miglior lavoro che abbia mai fatto se si considera il rapporto tempo/retribuzione.
Dopo, alcuni mesi in un call center a 400 euro e ancora archivista, addetto al controllo dei titoli di viaggio con un contratto non in regola e infine cameriere, cameriere e cameriere, contratti a chiamata che a chiamata non erano, tanto nero e per ultimo le paghe in base all’afflusso del locale».
Dietro storie come tante lo spettro del cottimo, l’equazione che ti porta ad essere ciò che produci senza però poterlo comprare, la promessa del merito e del successo individuale, la necessità che ti chiama a fare sacrifici e lo status lavorativo che, assieme al conto in banca, ti qualifica come individuo.
L’estrema sintesi è il guadagno come possibilità di autoaffermazione. «Ognuno ha quel che si merita», grida il coro spaventato che, come i nobili di Bourdieu, trova nella mancata collocazione altrui la rassicurante giustificazione al suo meritare ciò che in effetti già gli appartiene. «Mi sono spaccato la schiena io!» esordisce imperante, quando, nominando il reddito di cittadinanza, non tarda ad emergere un risentimento classista che sembra non conoscere precedenti.
Il lavoro come strumento o come condanna di quella che una volta era una massa di sconosciuti e di quelli che, oggi, vanno a costituire una massa di individui che torna a non riconoscersi. La forbice è tra chi dipende dai salari e chi dipende dai profitti, il tutto condito da una mai sanata ambizione di accumulazione e di conservazione dei privilegi acquisiti.
Marco
Marco ha trent’anni e non ha molto piacere a parlare, «le cose sono quelle che sono, un ingranaggio rotto a discapito dell’equilibrio sociale» mi dice. Inizia a sedici anni come giardiniere e, ovviamente, come tutto fare, dalle 6 alle 15, un giorno di riposo e 400 euro al mese, ci ritorna anche l’anno successivo, ma tutto è rimasto uguale, e lascia. Ci riprova durante il periodo universitario, rider, «uno storno sullo stipendio per ogni ritardo», poi cameriere per lo stesso ristorante.
Subito dopo ha inizio il calvario del tirocinio post-laurea: «doveva essere della durata di un mese, ma sono andato avanti per altri sei con la promessa di un’assunzione, addirittura a tempo indeterminato, che non è mai arrivata, tanti chilometri percorsi e nessuna paga». L’anno successivo il suo nuovo datore di lavoro, stiamo parlando di un campo estivo per bambini, non si fa trovare, «dopo i primi cento euro, a fronte di quasi due mesi di lavoro, si è semplicemente reso irreperibile».
Poi le proposte indecenti, da «un contratto diviso due», che se non fosse tragico ci sarebbe da ridere parecchio, al consiglio paternalistico di rinunciare alla propria vita sociale per 600 euro al mese, dalle 6 del mattino fino alla mezzanotte, con uno stacco di appena due ore pomeridiane, queste le condizioni messe sul tavolo; fino alla laurea che era meglio nascondere durante quel colloquio in un negozio di telefonia, ché i laureati, si sa, sono troppo ambiziosi.
Una risata amara come specchio di un futuro a cui è meglio non pensare. A cui, in definitiva, non si può pensare. La flessibilità e la resilienza venduti come risorsa irrinunciabile. Dietro l’angolo, la strada che conduce all’emigrazione, due milioni solo dal Sud negli ultimi quindici anni (rapporto Svimez 2019).
«La definizione del nostro Stato – ne parlava così Carlo Levi più di cinquant’anni fa – […] una mutilazione del corpo sociale, una espulsione di un gruppo, una sorta di sacrificio necessario e rituale, su cui fonda (lo Stato) la sua potenza e la sua falsa libertà». Era il 1967. Ciò che rimane è il conflitto tra il desiderio di mantenere la propria dignità e il bisogno di una momentanea “sicurezza”, assieme alla triste consapevolezza che «pattinando sopra il ghiaccio sottile – come scrive Emerson – la nostra speranza di salvezza sta nella velocità».
Ciò che rimane? «A questo punto, penso che siamo liberi di recuperare alcuni principi religiosi e valori più solidi, e tornare a sostenere che l’avarizia è un vizio, l’usura un comportamento reprensibile, e l’avidità ripugna; che chi non pensa al futuro cammina più spedito sul sentiero della virtù e della saggezza. Dobbiamo tornare a porre i fini avanti ai mezzi, e ad anteporre il buono all’utile. Dobbiamo onorare chi può insegnarci a cogliere meglio l’ora e il giorno, quelle deliziose persone capaci di apprezzare le cose fino in fondo, i gigli del campo che non lavorano e non filano».
Così scriveva, negli anni della Grande crisi, il padre della macroeconomia John Maynard Keynes nel suo saggio dall’eloquente titolo Possibilità economiche per i nostri nipoti. Gli dèi su cui si fonda la vita economica sono inevitabilmente geni del male, dichiarò in una conferenza nel 1928, un male necessario che almeno per un altro centinaio di anni ci avrebbe costretto «a fingere con noi stessi che il bene è male, e il male bene; perché il male è utile e il bene no».
All’anniversario dei cent’anni manca poco, eppure la fotografia resta pressoché la stessa, mossa e confusa, senza messa a fuoco. Ciò che è certo, ancora una volta, ieri come oggi, è che oltre alle strategie aziendali, oltre al costo del lavoro inteso come fattore variabile e comprimibile, comprimibile come sono comprimibili i diritti; i lavoratori continuano ad essere trottole a zonzo sul ghiaccio. Un ghiaccio che, ci piaccia o no, prima o poi si creperà sotto i colpi della flessibilità, delle esternalizzazioni e della mobilità. Trottole che non sanno o che non possono fermarsi. Trottole che, una volta fermatesi, avvertono addosso il peso di una mancata collocazione, stretti in quel pezzo di storia senza fine in cui si continua ad essere ciò che si produce.