Rubrica Slow Food Magna Grecia per Dante: il cibo nella Commedia
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È da poco trascorso il 25 marzo, giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, la data che i maggiori conoscitori del sommo poeta indicano come l’inizio del viaggio nell’aldilà descritto nella Divina Commedia. Anche la rubrica settimanale Slow Food Magna Grecia vuole lasciare un suo piccolo contributo nella celebrazione di tale anniversario, che quest’anno acquisisce una valenza ancora maggiore, coincidendo con il settimo centenario della morte di colui che è universalmente riconosciuto come il padre della lingua italiana. E quale migliore occasione se non questa per un breve viaggio alla ricerca di curiosità nascoste su Dante e il cibo, e la valenza che quest’ultimo assume all’interno del più grande poema allegorico in endecasillabi composto nel 1300 e che ancora oggi non smette di catalizzare su di sé l’interesse dei maggiori esperti o di semplici appassionati di ogni parte del Mondo.
Ma torniamo a noi. Com’era il rapporto tra Dante e il cibo? A tale quesito ci aiuta a dare risposta il Boccaccio, che in Trattatello in laude di Dante, così dichiara: «Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all’ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità […] né alcuna curiosità ebbe mai più in uno che in uno altro: li dilicati lodava e il più si pasceva di grossi, oltre modo biasimando coloro, li quali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e quelle fare con somma diligenza apparare, affermando questi cotali non mangiare per vivere, ma più tosto vivere per mangiare». Da qui si capisce come il poeta fiorentino non amasse la ricercatezza del cibo, ma la sobrietà e la cucina semplice ed equilibrata. A sostegno di ciò un antico aneddoto, non molto conosciuto, che lega il Sommo all’uovo: si racconta di un punto a Firenze in cui al giovane Alighieri piaceva sostare mentre osservava la costruzione del Duomo. La leggenda narra che un passante a lui sconosciuto un giorno gli chiese a bruciapelo quale fosse il cibo più buono del mondo, ottenendo una risposta netta dal poeta «l’uovo». Un anno dopo lo stesso uomo ripassò di lì e domandò nuovamente: «come?», mettendo alla prova la ben nota memoria di Dante, che rispose prontamente: «con sale». Umile, ma spesso disponibile e nutriente, l’uovo era infatti molto presente sulle tavole medioevali.
E se, invece, volessimo ricercare alcuni risvolti gastronomici all’interno della grande opera dantesca? In realtà di riferimenti specifici non troveremmo quasi traccia, se non per circoscritte eccezioni. La situazione si ribalta in maniera diametralmente opposta se si guarda al cibo come strumento di realizzazione di una condizione peccaminosa che consiste, per l’appunto, nel cedimento disordinato a queste pulsioni naturali: la gola. Un peccato, oggi, assai poco considerato visto il più ampio e facile accesso al cibo nel mondo occidentale moderno, e in un certo senso decaduto da quella che potremmo considerare come la sfera etica dei credenti. Ad avvalorare e mettere in risalto un cambiamento così radicale ci aiuta la nostra lingua italiana: lo stesso termine ghiottone, con il quale si va indicare una persona particolarmente golosa, nell’italiano antico assumeva invece una connotazione assai negativa, andando a ricoprire la semantica di mascalzone, canaglia. Dante nel XXII canto dell’Inferno usa tale termine in contrapposizione diretta con il sostantivo santi:«ma in chiesa / coi santi, e in taverna coi ghiottoni», ovvero con i farabutti. Mentre, nell’italiano contemporaneo ghiottone comporta addirittura un certo alone di simpatia e si riferisce tipicamente a bambini. Nel Medioevo ciò non era ammissibile, basterebbe ricordare le indicazioni dei dottori della Chiesa circa il peccato della gola, il quale si consuma in cinque modi: mangiando fuori tempo; ricercando cibi prelibati; eccedendo nella quantità; con soverchia avidità; esagerando nei condimenti.
Ecco che i due termini ai quali più frequentemente ricorriamo per riferirci all’area del mangiare, ovvero cibo e fame, assumono all’interno del poema significati semantici opposti a seconda delle cantiche in cui vengono inseriti: quello proprio, legato al mondo terreno e dunque alle sue debolezze e alle sue miserie, nel Purgatorio e nell’Inferno; e quello traslato, depurato dal senso originario e impiegato in accezione spirituale, come fame di beatitudine e ansia di sapere intellettuale e morale, inserito nel Paradiso. È sulla base di ciò che i golosi vengono puniti nel terzo cerchio dell’Inferno, prostrati nel fango senza la possibilità di volgere lo sguardo al cielo, costretti con il volto al suolo; e nella sesta cornice del Purgatorio, presi dai morsi della fame e della sete, patimento acuito dalla vista di frutti e di acque purissime che essi non possono toccare. Situazione che si capovolge nel Paradiso dantesco, in cui lo stimolo da fisico diventa intellettuale e morale e la fame connota allora un nobile impulso verso il sapere, un’ansia al raggiungimento dell’etica e del bene.
Un percorso che oggi può sembrarci tanto insolito quanto trasversale, ma che a ben vedere sottolinea ancora una volta l’importanza e il valore, non solo intrinseco, che il cibo ha assunto nel susseguirsi della storia umana; la forte connotazione simbolica, positiva o negativa che fosse, di cui il più grande poeta di tutti i tempi si è servito per raccontarci i vizi e le virtù di quegli uomini che un tempo siamo stati.