L’impatto della sostenibilità e il colonialismo del carbonio in Uganda

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Cosa si nasconde dietro il CDM? Il Meccanismo di Sviluppo Pulito, previsto dal Protocollo di Kyoto

Di cosa parliamo quando tiriamo in ballo il concetto di sostenibilità, che sia essa ambientale, economica o sociale? Lo sviluppo sostenibile, divenuto negli anni il paradigma dello sviluppo stesso, quanto si fonda realmente sulla capacità di un territorio o della sua popolazione di assorbire, sopportare e resistere agli impatti esterni? E quanto, invece, rappresenta, più banalmente, una bandiera pubblicitaria di buona condotta da sventolare all’occorrenza?

Qual è il reale impatto della politica della sostenibilità? Per capirlo, bisognerebbe analizzarne i paradossi. Ed è proprio tra i paradossi che si colloca il CDM, Clean Development Mechanism, Meccanismo di Sviluppo Pulito in italiano, previsto dall’art. 12 del Protocollo di Kyoto. Di natura flessibile, esso permette alle imprese dei paesi industrializzati con vincoli di emissione, di redigere progetti atti alla riduzione di gas serra nei paesi in via di sviluppo senza vincoli di emissione. Ciò significa che un’azienda privata o un soggetto pubblico può realizzare un progetto, in un paese in via di sviluppo, mirato alla limitazione delle emissioni di gas serra. La differenza fra la quantità di gas serra emessa realmente e quella che sarebbe stata emessa senza la realizzazione del progetto (scenario di riferimento o baseline), è considerata emissione evitata ed accreditata sotto forma di CER: ogni CER è pari a una tonnellata di CO2equivalente. I crediti CER possono poi essere venduti sul mercato e/o accumulati. Queste, le intenzioni. Poi, i fatti.

Nasce, quindi, con tali presupposti «un sistema di “emissions trading” che commercializza gli inquinanti invece di diminuirli, quote di CO2 che passano a chi non ha la possibilità di acquistarle perché non le emette. In pratica, è come se si stesse commercializzando l’aria». Questo perché la commercializzazione delle emissioni è una possibilità di gran lunga più comoda rispetto all’abbattimento “in casa”. Un’azienda può, quindi, continuare ad inquinare in patria e intanto acquisire quote di emissioni laddove non vengono prodotte. Si prefigura, infatti, come troppo ghiotta l’opportunità di colmare il proprio inquinamento, semplicemente, acquistando grandi distese di terreno per poi stabilirvi piantagioni forestali. Sarebbe necessario, a questo punto, domandarsi quali sono le conseguenze di questo mercato del carbonio. Del baratto tra l’aria non ancora inquinata, acquistata dalle grandi aziende per garantire solo la propria sostenibilità, e la terra venduta e sottratta a chi la abita e la coltiva da centinaia di anni.

Il caso più eclatante è quello della Green Resources, società norvegese, con investimenti sia privati sia istituzionali, che gestisce, tra Mozambico, Tanzania e Uganda, circa 38.000 ettari di foreste, e si presenta, sul proprio sito, come la «principale azienda forestale sostenibile in Africa».  Fondata nel 1995, ha acquisito, quattro anni dopo, una licenza della durata di cinquant’anni, su circa 2.700 ettari di terra nella Riserva del Kachung, in Uganda. «Riteniamo che la silvicoltura sia uno dei modi più efficienti per migliorare le condizioni sociali ed economiche delle persone nelle aree rurali» questo il loro motto. L’azienda sostiene, dunque, di combattere il cambiamento climatico attraverso il rimboschimento di terre degradate e la vendita di crediti CER a società inquinanti all’estero.

Nel 2015, l’Agenzia svedese per l’energia, acquirente dei crediti di carbonio prodotti dalla Green Resources, annuncia di aver congelato i pagamenti futuri a favore delle “risorse verdi”. Ciò, in seguito, a un documentario prodotto da una televisione svedese sulle piantagioni della Green Resources in Uganda. L’inchiesta televisiva certifica e smaschera il fallimento del progetto di compensazione del carbonio, facendo emergere un vero e proprio sistema coloniale.

Il risultato è l’insicurezza alimentare, la fame e la povertà per i diciassette villaggi adiacenti alle aree sotto la licenza di Green Resources. Alle persone che vi abitano è negato l’accesso alle piantagioni, così come l’approvvigionamento delle risorse forestali, compresa la legna da ardere. Pascoli e terra coltivabile vengono sottratti alle popolazioni locali per far spazio a monocolture di alberi da legno, con conseguente perdita della biodiversità e distruzione dell’habitat naturale di numerose specie di insetti, uccelli ed altri animali. A tutto ciò si aggiunge la contaminazione delle acque superficiali causata dagli agenti chimici utilizzati per la silvicoltura, la perdita dei raccolti e la morte del bestiame. Le violenze della polizia e dei vigilantes, le recinzioni e i muri, fanno storia a parte.

È attraverso tale meccanismo che tremila ettari di foresta nello stato dell’Uganda, dove più del 50% dei bambini vive nella più assoluta povertà, vanno a rappresentare un modello di sviluppo che sul territorio si abbatte con la medesima forza delle piaghe bibliche, e per il resto del mondo costituisce l’espiazione della cappa del progresso sporco e pesante. Le aree rurali pagano la colpa di un benessere che non gli appartiene. Il giusto compromesso per un avanzamento inarrestabile. Lo scambio tra i nostri scarti e le loro foreste. Contaminazione e incontaminazione sulla bilancia di un protocollo che sembra pendere, perennemente, dalla parte del più forte.

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