Rocco Scotellaro, il poeta contadino
Tempo di lettura: 4 minuti
«Per vedere come piove, non basta tenersi dietro i vetri e piangere, ma portarsi sulla strada con lo sguardo fisso al cielo, immenso e irraggiungibile». Paura e rischio. Comoda rassegnazione e scoperta. Forse rivoluzione. La rivoluzione di sapersi diversi, capaci di scendere in strada a rivendicare le proprie fatiche e i propri diritti. La rivoluzione del giorno che torna a nascere, o nasce, davvero, per la prima volta.
«È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi / con le facce e i panni che avevamo».
Rocco Scotellaro, Tutte le poesie, 1940-1953, Oscar Mondadori, p. 278
La somiglianza come esperienza comune. Forza contro la solitudine di sapersi soli e dimenticati. La civiltà contadina che si affaccia verso una pericolante liberazione, il brivido del precipizio, il sussulto dell’ignoto. Un mondo agrario che finalmente sa di esistere, un mondo che si riconosce e prende consapevolezza di se stesso. Rocco Scotellaro è stato il testimone di quel tempo e di quel mondo. Il poeta contadino, nato a Tricarico nel 1923, che racconta dalla e della Lucania, per la quale un po’ tutto, negli anni Cinquanta del secolo scorso, sembra immenso e irraggiungibile, proprio come quel cielo di cui parla nella raccolta Uno si distrae al bivio. I bivi che Scotellaro e i suoi contadini si trovano ad affrontare, disorientano. Echi di una storia ancora attuale, una storia che vibra nelle corde dell’odierna frustrazione. Un futuro che fa fatica a compiersi e rivelarsi. Sullo sfondo il meridione d’Italia, il crescente divario tra Nord e Sud, una politica lacerante e divisiva.
«Io e il mio paese meridionale siamo l’uva puttanella piccola e matura nel grappolo per dare il poco succo che abbiamo. […]. Così l’acino piccolo forzava gli acini grossi. E non si moltiplicava, non si faceva grande».
Rocco Scotellaro, Uno si distrae al bivio, Basilicata Editrice, 1974, pp. 105-110
In queste parole la sintesi della storia degli esclusi che pure non si sono mai tirati indietro: «L’uomo dell’uva puttanella ha il solo problema: l’attesa del giorno in cui a suo dispetto sarà gettato nel tinello per far mosto». Il mosto della storia, raccontata dai vincitori, smemorata nei confronti degli oppressi.
Eppure l’uomo dell’uva puttanella ha attraversato la storia della Lucania e di tutte le Lucanie del mondo, sino ai giorni nostri. Ha cercato di farsi spazio tra gli acini più grossi che lo opprimevano bloccandogli la via di accesso al sole, eppure, come tutti gli altri, non importa dove, ha versato il suo sangue, il suo sudore e il suo frutto. Ha assistito al clientelismo del ceto dominante, al suo sprezzante odio e furore, a tutti quei mezzi di cui si è servito il potere affinché lui, l’uomo dell’uva puttanella, restasse nella propria condizione subalterna. Ha osservato i padroni chiusi nel loro secolare disprezzo, avere timore, per la prima volta, che il mondo contadino si liberasse, che uscisse dalla rassegnazione, dalla miseria, dall’analfabetismo; fattori interdipendenti che nascono dalla mancanza di democrazia e tendono a perpetuare ed aggravare la mancanza di democrazia. Ha visto la Riforma agraria nascere e fallire; fallire per l’ostilità della piccola borghesia, per l’ostilità di coloro che pur non essendo privati di un metro di terra, «temevano i cambiamenti, temevano di perdere la situazione tradizionale di privilegio e prestigio nei riguardi di una popolazione contadina di servi che, diventati proprietari, non avrebbero più riconosciuto i tradizionali doveri, la tradizionale soggezione». (Carlo Levi, I contadini e la riforma agraria in Italia, «New York Times», 17 maggio 1953, in Il dovere dei tempi, Prose politiche e sociali, a cura di Laura Montevecchi, Donzelli Editore, p. 133).
L’uomo dell’uva puttanella ha smesso di far parte di un bacino di servi ed elettori da cui attingere al bisogno, ha smesso di chiedere solo il pane, ha alzato la testa, occupato le terre e ha urlato per la propria dignità e per la libertà dei suoi compagni.
L’uomo dell’uva puttanella siamo tutti noi. È il contadino costretto a svendere i frutti della propria terra ai colossi della commercializzazione. L’agricoltore che vende a pochi centesimi il proprio prodotto, con la minaccia che se non accetta i prezzi, il frutto può marcire sugli alberi: la frutta “non rispondente agli standard del mercato” non viene nemmeno pagata al coltivatore, per poi trovartela nei cestini dei grandi marchi o usata per fare succhi e marmellate. L’uomo dell’uva puttanella è l’operaio dell’Ilva che lavora per mangiare, anche se quel lavoro gli fa ammalare il figlio di cancro. È il giovane che si trova costretto ad andare via, in barba a uno Stato proprietario che accetta l’emigrazione come un dato di fatto, una falsa libertà da pubblicizzare in nome di un mondo aperto che in realtà non fa altro che ergere muri. I numeri sono qui a confermarcelo.
Dal 2002 ad oggi il Sud ha perso circa due milioni di abitanti, in gran numero giovani, il 33% dei quali possiede una laurea. Per quanto riguarda la Basilicata la popolazione residente al 1 gennaio 2018 è pari a 562.869 unità: la Svimez calcola che nel 2065 questa scenderà a 403.670. Il lavoro, misura di libertà, non c’é, come, apparentemente, non c’è altra soluzione che lasciar tutto e partire.
«Dal paese a Trento son mille chilometri circa: la distanza di un giorno d’autunno da un giorno d’estate. […]. Il paese lontano è questo, dove nessuno ti conosce, dove puoi essere figlio d’una bestia e non di quella mamma tanto buona e tanto triste».
Rocco Scotellaro, Uno si distrae al bivio, Basilicata Editrice, 1974, pp. 20-21
Il dramma dell’emigrazione, ora come allora. Un giorno d’estate che sembra non arrivare mai, o a cui bisogna rinunciare.
Rocco Scotellaro, sindaco di Tricarico a soli 23 anni, ha accompagnato la civiltà contadina verso la ribellione contro l’estrema povertà, contro i padroni, contro una situazione che sembrava l’unica possibile. Ha cantato le aspirazioni per l’avvenire ma anche lo sconforto. Ha dato voce alla terra, alla notte, a un mondo che profumava di cambiamento. Di sogno. Ha raccontato la vita nelle sue più sporche e illuminate sfaccettature. La vita che lo ha abbandonato a soli trent’anni, ma alla quale riconosceva la generosa grandezza di infinite potenzialità.
«Non muore niente / siamo solo noi provvisori / perché a tutti rimane / anche una mollica di pane».
Rocco Scotellaro, Tutte le poesie, 1940-1953, Oscar Mondadori, p. 306